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lunedì 2 luglio 2012

SALVATORE NUVOLETTA, 20 ANNI, AMMAZZATO PER ORDINE DEI CASALESI IL 2 LUGLIO 1982

QUESTI QUI SOTTO PUBBLICATI,  SONO ALCUNI BRANI DELLA STORIA DI SALVATORE NUVOLETTA, TRATTI DAL MIO LIBRO "LA BESTIA". ED. MELAMPO

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«Pronto? Casa Nuvoletta? Sono il colonnello Placido Russo. Devo darvi una bella notizia. Siamo venuti a capo della morte di vostro figlio. Un collaboratore di giustizia ha parlato e ha detto perché è stato ucciso». A Ferdinando Nuvoletta, il papà di Salvatore, che era dall’altro lato della cornetta, non pareva vera quella telefonata. Lui che si era battuto in ogni sede, che aveva scritto lettere a ministri, parlamentari e finanche al Presidente della Repubblica per avere giustizia per il suo giovane Salvatore, si emozionò a sentire quelle parole. Aveva atteso quel momento per quattordici lunghi anni, senza avere mai alcuna risposta. Dovette sedersi per non cedere all’emozione. Ringraziò il colonnello Russo e subito dopo chiamò la moglie: «Giuseppina, Giuseppina, erano i carabinieri. Hanno saputo chi e perché ha ucciso il nostro Salvatore». Si abbracciarono e scoppiarono in un pianto liberatorio.

Era il 1996, poco prima del blitz “Spartacus 2”, quello che portò in carcere decine di affiliati al clan dei casalesi e molti amministratori pubblici. Per quattordici anni l’omicidio del giovane carabiniere era rimasto un mistero. Nemmeno chi lo aveva ucciso voleva farne sapere i motivi veri. Troppe implicazioni, troppe complicità – forse anche interne all’Arma – imponevano un silenzio di tomba. La mafia siciliana, su richiesta del clan Nuvoletta, si era incaricata della responsabilità di eseguire l’omicidio per conto del clan dei casalesi, e aveva imposto a tutti l’omertà assoluta. Sapeva bene, Cosa Nostra, che le reazioni avrebbero potuto essere dure, con complicazioni gravi per i gruppi criminali che avevano colpito l’Arma. Aveva, perciò, aveva lasciato cadere su quella morte un sospetto velenoso dovuto al peso del cognome (…).

Ma per quattordici anni il padre Ferdinando, la madre Giuseppina Gargiulo e gli altri sei fratelli non si sono dati pace. Hanno bussato a molte porte. Si sono sentiti spesso umiliati, frustrati, perché nessuno voleva ascoltarli. Il dolore non lo si può raccontare, lo si sente. Né si cancella, si attenua. L’obiettivo di mamma Giuseppina fino al giorno della sua morte, giunta il 27 marzo del 2006, era stato schiaffarlo in faccia a tutti, il proprio dolore. Perciò gli abiti neri non se li era mai tolti. Come a voler ricordare che aspettava ancora giustizia. Un monito per chi negli anni non era stato in grado di spiegare quel delitto e di trovare un colpevole. Poi, negli ultimi cinque anni di vita, aveva preso la decisione di non partecipare più a nessuna cerimonia commemorativa. Non voleva regalare più nulla a uno Stato irriconoscente, diceva, verso i suoi figli migliori. Perché quel figlio morto era la sua disperazione mai finita. E al dolore si aggiungeva un senso di colpa e di angoscia per non essere riuscita a salvare il figlio. Salvatore con lei aveva parlato pochi giorni prima di morire. E le parole che aveva ascoltato le rimbombavano nelle orecchie continuamente, ossessivamente: «Mamma – le aveva confidato – so che dovrò morire. Me lo hanno detto, ma non ho paura. Io sono un carabiniere».

Lo sgarro e la vendetta

Salvatore Nuvoletta doveva pagare uno “sgarro” fatto a uno dei boss emergenti della zona. Si chiamava Francesco Schiavone, sarebbe passato alla storia del crimine come “Sandokan”, e allora era il giovane autista e killer di fiducia di Antonio Bardellino, il capo indiscusso del clan dei casalesi nonché uno dei primi camorristi ad affiliarsi a Cosa Nostra. Schiavone aveva deciso di fare pagare a Salvatore l’uccisione di un camorrista avvenuta il 20 giugno 1982 in un conflitto a fuoco tra malviventi e carabinieri, nei pressi di Casal di Principe. In quell’occasione era rimasto sul terreno Mario Schiavone, conosciuto con il soprannome di “Menelik” e cugino conclamato (anche se nessuna parentela risultò al processo) di Sandokan. Nello stesso conflitto a fuoco era stato ferito un altro boss, Vincenzo De Falco “’o fuggiasco”, il futuro grande traditore, mandante dell’assassinio di don Peppe Diana. I due, con Luigi Venosa detto “’o cucchiero”, stavano tornando da una rapina a Castel Volturno quando si imbatterono in un posto di blocco. «La camorra voleva la vendetta contro i carabinieri – racconta Gennaro, il fratello di Salvatore – “Fuori il nome di chi ha ucciso mio cugino, o salta in aria la caserma con tutte le persone dentro”, mandò a dire Sandokan. E un giorno passò anche alle vie di fatto direttamente con il maresciallo Gerardo Matassino, che allora comandava la stazione dell’Arma di Casal di Principe. Vicino alla caserma, proprio sulla pubblica strada, Sandokan prese a schiaffi il maresciallo chiedendo chi era stato a sparare al cugino. Più in là c’era Salvatore, mio fratello, che tentò di intervenire per arrestarlo. Sandokan stava per reagire, poi disse solo con tono minaccioso: “Fatti i fatti tuoi”. Matassino non fece cenno ad alcuna reazione dopo gli schiaffi, tanto che altri giovani carabinieri che avevano assistito alla scena rimasero sorpresi
del suo comportamento. Ma il perché si venne a sapere solo molti anni più tardi, ad opera di un pentito». Gli schiaffi in pubblico a un maresciallo dei carabinieri erano un modo, anche eclatante, per affermare la supremazia del clan e per lanciare il messaggio che la morte di un camorrista si paga cara. Quello era il periodo in cui Antonio Bardellino era il punto di riferimento nella “Nuova Famiglia”, un cartello di gruppi camorristici (Alfieri, Casalesi, Nuvoletta, Zaza), che aveva deciso di fare la guerra a Raffaele Cutolo, a sua volta a capo della “Nuova Camorra Organizzata”. La guerra era scoppiata per il controllo del traffico del contrabbando di sigarette. E, soprattutto, per il controllo dei fondi per la ricostruzione arrivati in seguito al terremoto del 23 novembre 1980 che aveva sconvolto la Campania e la Basilicata.

Per la morte del camorrista “Menelik” fu dunque indicato come colpevole Salvatore Nuvoletta, il carabiniere che notoriamente cercava di contrastare le scorribande e lo strapotere dei giovani rampolli della camorra; che dava “continuamente fastidio”, fermando i “guaglioni” per strada ogni volta che se ne presentava l’occasione. Il carabiniere che voleva rispettare e che fosse rispettata la sua divisa. E che quindi non riusciva ad accettare che alcuni suoi colleghi dimostrassero una così aperta tolleranza verso gli esponenti dei clan casalesi. E che anche perciò aveva fermato proprio Mario Schiavone, “Menelik”, nelle settimane precedenti il conflitto a fuoco. Secondo i pentiti, a “vendere” il nome di Salvatore Nuvoletta ai clan fu proprio il suo superiore, il maresciallo Gerardo Matassino, colui che più di tutti doveva difenderlo e che invece, così venne raccontato, era sul libro paga dei casalesi. Solo che Salvatore, il giorno del conflitto a fuoco con i camorristi, era di piantone in caserma. Perché dunque giusto lui sia stato offerto come capro espiatorio ai camorristi rimane un mistero. L’unica spiegazione è che qualcuno se ne volesse sbarazzare dall’interno stesso dell’Arma locale; che la sua presenza in caserma rappresentasse un fastidio per chi aveva deciso da tempo di venire a patti con i criminali. A parlare specificamente della vicenda, rimasta oscura per tanti anni, fu il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone.

Quando venne ucciso il carabiniere Salvatore Nuvoletta aveva 20 anni. Si era arruolato nell’Arma nel novembre del 1979, a soli 17 anni. Sognava una famiglia e una carriera nell’Arma, come gli altri suoi fratelli. Ma i suoi sogni furono spezzati quando tre killer del clan Nuvoletta lo trucidarono proprio sotto la sua abitazione, a Marano. Era il primo pomeriggio del 2 luglio 1982. Di lì a qualche giorno l’Italia intera sarebbe esplosa di gioia per la vittoria ai mondiali di calcio in Spagna.
Alle tre del pomeriggio
Faceva caldo il 2 luglio del 1982. Salvatore Nuvoletta era seduto all’ombra, su una sedia fuori del negozio di frutta e verdura dei genitori, in via Santa Maria a Cubito, 231. Stava giocando con Bruno D’Aria, un ragazzino di 9 anni a cui era molto affezionato. Lo teneva sulle ginocchia. Giocava e rideva, Salvatore, quel pomeriggio. Aveva smesso la divisa e stava in abiti civili. Dei pantaloncini chiari, una camicia celeste e un borsello a tracolla dove teneva tutti i documenti. Il negozio era aperto. C’era dentro il fratello, Antonio, che all’epoca lo gestiva con i genitori. Suo padre Ferdinando e la madre Giuseppina stavano riposando. Fu allora che giunse il messaggio. «Sta fuori il negozio dei suoi genitori, potete partire». Alle tre del pomeriggio e sotto un sole cocente, con le strade semideserte, era l’occasione giusta. Lo spione del clan dei Nuvoletta corse ad avvisare che il commando poteva dar corso all’esecuzione. Tutto era pronto per la vendetta. L’unico problema poteva essere quel bambino che continuava a giocare con Salvatore e che gli ritornava sempre in braccio.

Partirono su una Volkswagen Jetta grigio perla, che era stata rubata qualche settimana prima per l’occasione. Quattro i killer sull’auto. Uno con un revolver Smith & Wesson calibro 44 Magnum. Gli altri tre tutti armati di un revolver 357 Magnum. Quando la Volkswagen arrivò sul corso principale di Marano, a una trentina di metri dall’obiettivo, tre di loro scesero dall’auto e uno rimase alla guida. I killer impugnarono le armi e si avvicinarono a passi veloci verso il carabiniere. Lo chiamarono per nome: «Totore, totore…». Salvatore Nuvoletta sentendosi chiamare, si voltò credendo di incrociare qualche viso amico. Ma quando si accorse che tre uomini armati si avvicinavano a passo veloce verso di lui, capì subito tutto. In quel momento si materializzarono le paure, le ansie degli ultimi mesi. Sentì il sangue salirgli in viso. Non poteva né reagire né scappare. Troppo tardi. I killer erano già a pochi passi. Pensò solo a Bruno, che era ancora seduto sulle sue ginocchia e continuava a giocare. Istintivamente lo lanciò lontano. Bruno rotolò per terra. Appena in tempo per salvarlo, perché pochi attimi dopo Salvatore cadde in una pozza di sangue. Lo tempestarono di proiettili esplosivi. Quelli che lo colpirono gli portarono via lembi interi del corpo, conficcandosi nel muro alle sue spalle e sotto il balcone sopra la sua testa. Non contenti, i killer gli spararono anche il colpo di grazia. Già, il colpo di grazia, che una volta veniva considerato un atto di pietà nei confronti di un ferito sul campo di battaglia, qui invece diventa un gesto di spregio; il segno di una vendetta consumata senza alcuna ombra di pietà. Come firma, rivendicazione del delitto. E come monito esemplare, verso i cittadini ma anche – in questo caso – verso le forze dell’ordine. Un modo per ristabilire sul campo la potenza militare anche nei confronti dello Stato. Pochi attimi dopo i killer, compiuta la missione di morte, sparirono in una traversa laterale.

Il padre Ferdinando, svegliato dal trambusto, si affacciò dal balcone della sua abitazione pensando che quei colpi fossero mortaretti sparati da qualche ragazzino. Uscì urlando: «La volete smettere di disturbare le persone che riposano a quest’ora?». Ma quando si affacciò e vide che sotto c’era una folla di persone inorridite, si rese conto che doveva essere accaduto qualcosa di grave. Mai però avrebbe pensato che a terra ci fosse proprio il corpo di suo figlio Salvatore. Sono rimasti lì per tanto tempo quei segni di morte. Conficcati nel muro e nel marciapiede.

Se son vivo lo devo a Salvatore

«Ora faccio il pizzaiolo in Germania, ma a Salvatore non me lo sono dimenticato. Lui mi ha salvato la vita quel giorno». C’era anche Bruno, il bambino rimasto vivo solo per la prontezza di riflessi di Salvatore, a ricordare l’ amico carabiniere alla cerimonia del 2 luglio 2007. Venuto apposta dalla Germania. Ora ha 34 anni. Gennaro Nuvoletta lo aveva perso di vista. Di lui a Marano si erano smarrite le tracce, come se si fosse voluto tagliare tutti i ponti alle spalle. Il rapporto con la famiglia, dopo la morte della mamma, non era stato proprio idilliaco. Bruno non vedeva Gennaro Nuvoletta da più di vent’anni. Ma prima di emigrare, quando lo incrociava, non faceva altro che ricordarglielo: «Gennaro, se sono vivo, lo devo a tuo fratello Salvatore». Perciò Gennaro era andato alla sua ricerca con l’applicazione investigativa del carabiniere di razza. Era troppo importante la sua presenza quel giorno. Era teso ed emozionato, Bruno D’Aria, alla commemorazione che l’associazione Libera aveva organizzato nella caserma dei carabinieri di Casal di Principe. La stessa in cui Salvatore Nuvoletta aveva prestato coraggiosamente servizio e che ancora non gli è stata intitolata, nonostante una richiesta avanzata anni or sono; solo una lapide nel corridoio vicino all’ingresso principale ne ricorda il sacrificio.

Nessuno nell’occasione sapeva chi fosse quel giovanotto sulla trentina visibilmente a disagio in quell’ambiente e che non si staccava un attimo da Gennaro Nuvoletta. Ci pensò Valerio Taglione a presentarlo alle autorità. Bruno si trovò quasi addosso il ruolo della star. Sorrideva, salutava, ma non riusciva a dire una parola. Era imbarazzato, emozionato, e allo stesso tempo contento di essere a Casal di Principe per ricordare il suo amico più grande. Ancora oggi ha un ricordo nitido di quegli ultimi, terribili attimi. Anche se è passato più di un quarto di secolo. «Siamo andati via da Marano con i miei genitori e sono andato ad abitare a San Rocco di Marano, oggi via Paolo Borsellino. Non ho mai parlato con nessuno perché ho avuto sempre paura, sempre. E quando ho sentito che Gennaro Nuvoletta mi cercava, ho avuto ancora più paura. Ho pensato: che cosa sarà mai successo che ora, dopo tanti anni, vengono a cercarmi? Poi Gennaro mi ha telefonato e mi ha tranquillizzato dicendomi: “Bruno, non è niente. Abbiamo organizzato una cerimonia per ricordare mio fratello e vogliamo che ci sia anche tu perché sei l’unica persona amica che l’ha visto negli attimi prima della morte”.

I primi tempi andavo al cimitero senza farmi vedere da nessuno. Prima di me arrivava il papà di Salvatore, Ferdinando. Anche se avevo l’impressione che lui fosse sempre lì. Lo vedevo una volta a pulire la tomba, una volta a mettere i fiori, una volta a sistemare la lampada vicino alla foto. Io mi nascondevo per non farmi vedere da lui. Non so perché, ma non volevo farmi vedere da nessuno. Ero rimasto traumatizzato. Lì vicino c’è una chiesa. Mi fermavo spesso sui gradini e aspettavo. Non so che cosa, ma aspettavo. Quando arrivava il prete mi diceva: “Bruno, mi raccomando…guarda che lì c’è suo padre. Appena ti vede si mette a piangere. Non ci andare”. E io non ci andavo nel cimitero.

Poi il papà di Salvatore al ritorno mi incontrava perché io restavo a lungo sulle scale della chiesa ad aspettare e a guardare da lontano. Mi veniva vicino, mi accarezzava e ogni volta mi diceva la stessa cosa: “Bruno, hai visto che mi hanno fatto? Mi hanno ucciso mio figlio. Me l’hanno portato fino via. Lui non ha fatto niente e me l’hanno ammazzato. Così piccolo, così giovane, me l’hanno ammazzato”. Ricordo che piangeva sempre. Sono indimenticabili i suoi occhi pieni di lacrime. Era da un po’ di tempo che stavo sempre insieme a Salvatore. Mi voleva bene. Si era affezionato a me perché ero un bambino vispo, sveglio. Addirittura era andato dai miei genitori a dirgli che voleva adottarmi. Loro gli dissero che potevo stare con lui tutto il tempo che voleva, ma che la sera dovevo tornare a casa.

Mia mamma mi reclamava. Ma avevano piacere che io passassi con lui le mie giornate, altrimenti le avrei trascorse per strada. E per strada si possono fare brutti incontri, prendere vie pericolose. Ero abituato a stare dalla mattina alla sera in giro e chiedevo soldi alle persone. Salvatore mi diceva: “Bruno, a me queste cose non piacciono. Non le devi fare. I soldi te li dò io”. Quando poi stavamo assieme mi comprava di tutto: giocattoli, magliette, pantaloncini. Quel giorno mi era venuto a prendere a casa, perché mia madre lo aveva mandato a chiamare per farmi sgridare. Ne avevo fatto un’altra delle mie. “Questo ti sta a sentire più a te che a me – lo esortò mamma – diglielo anche tu che deve calmarsi, che alcune cose non si devono fare”. “Se fai il bravo – mi disse Salvatore prendendomi per mano – oggi ti porto a comprare la bicicletta”. Era una bmx grigia, me la portò a vedere. E come si fa a dimenticare certe cose... Dopo siamo andati fuori dal negozio dei suoi genitori e, come sempre, mi ero seduto sulle sue gambe. Stavamo giocando. Ma io non facevo altro che pensare alla bicicletta e gli chiedevo: “Quando me la compri?”.

Poco dopo da sinistra arrivò una macchina che io ricordo di un colore marrone. Lui parlava con me e aveva le spalle al muro. Mi ricordo di due, tre persone che sono arrivate vicino e lo hanno chiamato ripetutamente per nome: “Totore, Totore, Totore…”. Salvatore si girò e guardò nella direzione da dove veniva la voce. Quando vide le armi puntate su di lui, non pensò a nient’altro: mi lanciò sulla sua sinistra, per terra, perché aveva capito subito che cosa sarebbe successo. Io scappai sotto un fabbricato in costruzione. Sentii i colpi sparati a ripetizione. Chiusi gli occhi e misi le mani sulle orecchie per non sentire più. Furono momenti terribili. Ebbi paura che mi stessero uccidendo. Quando finirono di sparare andai vicino a Salvatore che era steso per terra e capii che era morto. Cominciai a piangere. Mi buttai sul suo corpo e lo abbracciai. Arrivarono i carabinieri, l’ambulanza, un casino. Ma io non lo lasciai. Qualcuno tentò di staccarmi da lui, come il macellaio che aveva il negozio lì a fianco. Ma non ci riuscì. Rimasi così fino a quando non arrivò mia mamma: “Bruno lascialo – mi disse – dai, lascialo. Vieni che ti porto a casa”. Così andai in braccio a lei ancora singhiozzando e continuavo a chiederle: “Perché lo hanno ucciso, perché lo hanno ucciso?”. Oggi ho ricordi confusi dei giorni che seguirono. Ricordo solo che per un certo periodo i carabinieri giravano attorno alla mia casa, non so se per proteggere mio padre o me che avevo visto gli assassini. Ma io in faccia non li avevo visti. Per tantissimo tempo la notte avevo gli incubi, perché avevo il terrore che venissero a uccidere anche me. L’ho temuto per tantissimi anni.

Perciò mi nascondevo e non volevo farmi vedere da nessuno quando andavo sulla sua tomba a portargli un fiore. Poi mia mamma morì e io a casa non mi trovai più bene. Mio padre non mi trattava come un figlio. Così un giorno mi sono deciso e sono scappato di casa. Ma Salvatore me lo sono portato nel cuore. Ancora oggi mentre faccio le pizze nel ristorante italiano in cui lavoro, ogni tanto mi capita di pensare a lui, a lui che mi prometteva quella bicicletta».

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